Se anche a Napoli cala la nebbia

Appena i media, cioè radio televisione, ma soprattutto i social network hanno diffuso la notizia che c’era la nebbia a Napoli, in automatico il pensiero è corso alla famosa scena di “Totò Peppino e la malafemmina” quando arrivano a Milano vestiti da Cosacchi e Totò afferma lapidario, “quando la nebbia c’è, non si vede”.

I meterologi hanno diffuso varie spiegazioni sul raro fenomeno, dal riscaldamento globale alle emissioni dell’ossido di carbonio, alle temperature eccessivamente calde di questo mese di febbraio 2021, 12 gradi in più della media del periodo, tutte cose che noi sappiamo che ci fanno rabbrividire quando ce le ricordiamo, ma poi passano presto. Il lockdown d’altra parte ha contribuito non poco ad eliminare i fenomeni nebbiosi specie in Val Padana, dove si piazzava a novembre ( la nebbia) e spariva verso marzo/ aprile.

D’altra parte neppure Roma è immune da questo fenomeno. Spesso la mattina la capitale si sveglia sotto una coltre di nebbia che in genere si dissolve presto, dopo aver causato ritardi negli arrivi e nelle partenze dall’aeroporto di Fiumicino, quando questo funzionava a pieno regime. Oggi che decolla un aereo ogni tanto, la nebbia non crea nessun problema.

La nebbia c’è sempre stata solo che non l’abbiamo vista
Tuttavia questo raro fenomeno meteorologico qualche pensiero ce lo fa fare ma non sul tempo, perché tanto si sa che Napoli è “il paese del Sole” per cui dobbiamo partire dall’affermazione di Totò quando dice che la nebbia c’è ma non la vediamo. Forse metaforicamente è così, per anni una nebbia stagnante ha coperto la città e non ce ne siamo mai accorti. Abbiamo camminato a tentoni “ noi volevon savoir per andare dove vogliamo andare...” spesso sbagliando strada e direzione.
Con il Covid la nebbia, che noi abbiamo continuato a non vedere, si è infittita e quando finalmente “schiarerà juorno” perché abbiamo debellato il virus, e la coltre nebbiosa sarà diradata allora vedremo la città alla sua luce naturale nuda e cruda e ci toccherà rimboccare le maniche e con un afflato solidaristico ripartire se non da zero, ricominciare almeno da tre.
Le piaghe secolari che affliggono Napoli e, per estensione tutto il meridione, oggi non possono essere nuovamente curate con i placebo. Come per il coronavirus occorrono vaccini in gran quantità, medicine anche amare, ma subito efficaci. Si tratterà di recuperare un pezzo di vita oggi distrutto, ricostruendo un tessuto etico-sociale prima ancora che economico.

Ma la nebbia stagna anche sul nuovo esecutivo, non per colpa sua, ma che rischia di produrre danni ingenti non solo per tutto il Paese, ma specialmente al Sud.

La mancanza dei decreti attuativi aggravano la prospettiva

Per rendere operativi i provvedimenti approvati per contrastare la crisi economica conseguente alla pandemia, occorre licenziare tutti i decreti attuativi per diventare pienamente operativi: il decreto Rilancio deve ancora avere 52 provvedimenti attuativi sui 137 totali; del Decreto Legge Semplificazioni ne sono stati approvati 3 su 37; la legge di Bilancio approvata lo scorso dicembre necessita di 176 decreti attuativi: ne è stato approvato solo uno.

La pandemia distrugge le future pensioni dei giovani, correggere il sistema contributivo

La pandemia festeggia un anno e noi da un anno soffriamo le pene dell’inferno e con l’animo stiamo a metà strada fra la claustrofobia, l’arrabbiatura e la rassegnazione fatalistica.

Come simbolo di cambiamento si confermano le misure restrittive almeno fino al 27 marzo, di cui certamente non possiamo fare a meno se non fosse per gli effetti collaterali sull’economia. Così speriamo di recuperare la Pasquetta persa l’anno scorso, così come ci era stato promesso lo scorso mese di ottobre che le restrizioni servivano per farci trascorrere un “Sereno Natale” quelle nuove ci promettono una “ Serena Pasqua”. Quasi sicuramente il “casatiello” o la colomba la mangeremo fra il chiuso delle pareti domestiche.
Fra gli sconquassi futuri, perché quelli immediati sono sotto gli occhi di tutti, c’è il problema delle pensioni.

I giovani di oggi senza pensione domani

Metà degli attuali giovani di 30/40 anni rischierà di non maturare alcun diritto alla pensione, perché matureranno l’età pensionabile ( da 67 anni in su) ma difficilmente matureranno i 20 anni di contributi necessari. Una generazione che dovrà sperare nella permanenza della pensione sociale.
La scomparsa dal tavolo delle trattative governo e sindacati, della cosiddetta pensione minima di garanzia aggrava la prospettiva.
La previdenza complementare, valida per chi può permettersela diventa un privilegio per una ristretta minoranza di lavoratori garantiti i quali maturando il tfr, il trattamento di fine rapporto, sono restii ad aderire ad un qualsiasi fondo pensionistico integrativo.
Un soluzione radicale che neppure i grillini hanno mai preso in considerazione, forse perché neppure sanno di che si tratta, è quello di abbandonare l’attuale modello su cui si regge la previdenza.

Abbandonare il sistema “assicurativo”

Il sistema pensionistico nostrano come del resto nella maggior parte dei paesi europei, non appare adeguato a fronteggiare situazioni di insufficienza pensionistica finchè l’importo della pensione sarà strettamente correlato al periodo lavorativo e al montante individuale accantonato, senza nessun intervento solidaristico.
L’Italia ha in comune con i paesi europei la caratteristica di sistema pensionistico di tipo “assicurativo” mentre i regimi di tipo “universalistico” invece forniscono pensioni flat rate, cioè un importo sociale indipendente sia dai livelli retributivi sia con la durata del periodo lavorativo.
Lo schema pensionistico italiano come le altre parti del nostro sistema di sicurezza sociale è ancora costruito sul modello del lavoratore dipendente tipico a tempo indeterminato, mentre il mondo del lavoro risulta oggi profondamente modificato. La mancanza di un adeguata copertura delle carriere corte e discontinue non è un prodotto del sistema contributivo ma dalla frammentarietà del mercato del lavoro, aggravato dall’epidemia da Covid.

le pensioni sotto il minimo vitale

L’insufficienza pensionistica quindi si sarebbe verificata anche nel sistema retributivo. In questo sistema infatti il rendimento è del 2% annuo e quanto più lungo è il periodo di contribuzione tanto maggiore sarà il rendimento e viceversa. Con 35 anni di anzianità contributiva la pensione è del 70% dell’ultimo stipendio. Se si confronta il tasso di sostituzione previsto nel contributivo con quello del retributivo a parità di anzianità e di retribuzione, si scopre che il sistema retributivo non è affatto così generoso come si pensa, perchè i tassi di sostituzione tendono a pareggiare. Ma con anzianità inferiori la cosa va decisamente peggio.
Nel sistema contributivo il lavoratore con 20 anni di contributi avrà un tasso di sostituzione del 49,2% , la pensione sarà quindi la metà dell’ultimo stipendio, sempre che si raggiungano i 20 anni di contributi! Al di sotto del minimo vitale e della pensione di cittadinanza ( se continuerà ad esistere)
Nell’attuale sistema che si poggia su criteri assicurativi individuali, per rendere le pensioni adeguate, due sono le strade, l’innalzamento dell’età pensionabile e l’integrazione della previdenza pubblica con i fondi pensione complementari. Il primo obiettivo è stato perseguito con la riforma Fornero, parzialmente addolcito con l’Ape sociale e quota 100, ma questa è in scadenza, forse, a fine 2021. Sulla previdenza complementare c’è da dire tutto il bene possibile, dà un’aggiunta alla pensione Inps e non grava sulle casse dell’Inps.
C’è un però.

Ai lavoratori discontinui niente complementare: non possono
I lavoratori atipici e gli autonomi a basso reddito non possono accedere a alla complementare perché non hanno diritto al Tfr oppure perché non sono in grado di effettuare nessun risparmio, a maggior ragione quello previdenziale. Gli incentivi di natura fiscale della complementare d’altronde avvantaggiano le retribuzioni medio alte.
E’ necessario riflettere sulla necessità di passare da un sistema pensionistico di stampo unicamente assicurativo ad uno che disegna la pensione pubblica su un modello diverso, solidaristico che prevede una base finanziata dalla fiscalità generale ed è su questa ipotesi che si dovrebbe sviluppare il confronto con le parti sociali.

Dal discorso di Draghi nessun accenno al “Piano Sud 2030”

Il 14 febbraio 2020 quasi un anno fa, l’allora ministro per il Sud Giuseppe Provenzano presentò il piano di rinascita per il Sud con relative slide chiamato Piano Sud 2030. In quell’occasione l’ex ministro ebbe a scrivere:
Manca il lavoro buono, certo. E servizi di qualità: scuola, salute,
mobilità. Ed i giovani se ne vanno. Ma la prima causa della fuga, o della fatica di quelli che restano, è l’incertezza e la sfiducia sulle prospettive di futuro del Sud, da qui a dieci, vent’anni.
L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. La sfida del Sud è la più difficile di
tutta la nostra storia unitaria.
La politica ha il compito di creare e diffondere condizioni di benessere, accelerare e supportare i processi virtuosi. La premessa è dare risposte alle emergenze e ai bisogni, dove necessario riconquistare territori e cittadini alla legalità.
Lo sviluppo e la coesione sono “missioni”. Non riguardano solo i meridionali, ma tutti coloro che sono impegnati nella battaglia per rendere l’Italia un paese più giusto e avanzato”
.

la firma del protocollo fra Provenzano ed Arcuri

Poi il 18 dicembre 2020, circa due mesi fa quindi, nonostante l’impatto catastrofico della pandemia, è stato firmato un protocollo tra il Ministro per il Sud e Invitalia.

Il Protocollo regola le modalità di collaborazione per il raggiungimento di alcuni dei principali obiettivi stabiliti dal Piano Sud 2030, come le nuove politiche industriali regionali specie quelle che si collocano sulla frontiera dell’innovazione.

In particolare, le linee di intervento congiunte riguarderanno la realizzazione di specifiche “Azioni di Sistema” per il miglioramento della capacità amministrativa delle amministrazioni della coesione, il rafforzamento dei Contratti di Sviluppo e delle altre misure di Invitalia volte a sostenere gli investimenti industriali e innovativi e la crescita tecnologica e dimensionale delle imprese del Mezzogiorno (Fondo “Cresci al Sud”).

Il Protocollo ha una durata di sette anni, per garantire il necessario orizzonte di lungo periodo degli interventi e l’accompagnamento dei cicli di programmazione comunitari e nazionali.

Oggi nel suo discorso programmatico al Senato Draghi ha detto le cose ovvie che immaginavamo con misurata ma immancabile retorica. Infatti le borse non hanno festeggiato. nonostante facesse capire che sarebbe finito l’assistenzialismo industriale. Infatti ha detto che “il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione” . Cioè niente più lo Stato che gestisce l’economia come sta facendo ora per l’ex Ilva e l’ex Alitalia. Vedremo

In merito al Mezzogiorno anche qui un trionfo dell’ovvio senza nessun riferimento al Piano Sud 2030. Se ne sarà dimenticato oppure ne ritiene ovvia la realizzazione, sia pure con qualche aggiustamento di sano realismo? Non è dato da sapere perchè sul Meridione si è limitato a dire:
Aumento dell’occupazione, in primis, femminile, è obiettivo imprescindibile: benessere, autodeterminazione, legalità, sicurezza sono strettamente legati all’aumento dell’occupazione femminile nel Mezzogiorno. Sviluppare la capacità di attrarre investimenti privati nazionali e internazionali è essenziale per generare reddito, creare lavoro, investire il declino demografico e lo spopolamento delle aree interne. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre creare un ambiente dove legalità e sicurezza siano sempre garantite. Vi sono poi strumenti specifici quali il credito d’imposta e altri interventi da concordare in sede europea.

Per riuscire a spendere e spendere bene, utilizzando gli investimenti dedicati dal Next Generation EU occorre irrobustire le amministrazioni meridionali, anche guardando con attenzione all’esperienza di un passato che spesso ha deluso la speranza.”

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14 febbraio 1861: Francesco II si arrende ai piemontesi. Finisce la dinastia Borbone di Napoli

La partenza di Francesco II e Maria Sofia

Il 14 febbraio è il giorno di San Valentino, festa degli innamorati, ma 160 anni fa, dalle parti di Gaeta c’era poco da festeggiare, a parte il fatto che non si festeggiava ancora niente.

Quel giorno Francesco II di Borbone, il famoso Franceschiello che la Curia napoletana e moltissimi partenopei lo vogliono Santo, sicuramente aveva altri e più gravi pensieri. Il giorno prima, il 13 febbraio 1861 aveva firmato la resa con l’esercito sabaudo e il 14 lasciava Gaeta per non tornare più a Napoli. Oltre che sconfitto, se ne andava anche povero, perché il i Piemontesi avevano congelato i suoi beni al Banco di Napoli e li avrebbero restituiti solo se Francesco avesse rinunciato ai suoi diritti al trono. Al che il re di Napoli, ormai ex, aveva risposto sprezzante che i suoi diritti non erano in vendita.

Contemporaneamente un altro sconfitto della partita, messo da parte dopo aver regalato chiavi in mano un regno florido e con i bilanci in ordine, Garibaldi approdava a Caprera dopo aver rifiutato il titolo di Duca. Garibaldi Duca, ve lo immaginate?

La resistenza di Gaeta

L’epopea dell’assedio di Gaeta è generalmente omessa dalla storiografia oppure appena accennata. Invece fu un episodio fondamentale almeno per il riscatto morale della dinastia, dell’ultimo re napoletano e dei soldati meridionali. Cialdini, capo dell’esercito assediante, aveva fatto costruire in brevissimo tempo 18 chilometri di strade compresi 15 fra ponti e viadotti, così da poter far arrivare velocemente armi, munizioni e viveri che viceversa scarseggiavano nella piazzaforte napoletana.
Cialdini e Cavour erano convinti di annientare il nemico senza pietà e senza fare prigionieri in poco tempo, al massimo una decina di giorni. Invece dovettero penare 3 mesi.
Dal 12 novembre 1860 fino al 13 febbraio 1861, il Re con i resti dell’esercito, tentarono l’ultima resistenza. Francesco II aveva 20mila soldati, a fronteggiarli 18mila piemontesi.

L’eroismo della Regina Maria Sofia

Maria Sofia di Baviera

Durante l’assedio grande aiuto gli venne dalla moglie Maria Sofia , sorella della più famosa imperatrice Sissi. Maria Sofia fu la vera ed infaticabile eroina delle 102 giornate. Essa aveva appena 19 anni. Libera dall’atmosfera chiusa della corte, da ogni etichetta e formalismo, partecipò attivamente alla difesa di Gaeta. Incurante del fuoco nemico, si aggirava a tutte le ore fra gli spalti, andava a soccorrere i feriti, incitando gli altri alla lotta.
Mentre da una parte di soffriva la fame, la sete, il freddo e le malattie, dall’altra gli ufficiali sabaudi, molti dei quali neppure parlavano l’italiano, ben alloggiati nelle requisite ville circostanti facevano la bella vita con sontuosi banchetti allietati da “vivandiere” venute al seguito delle salmerie e godendo perfino concerti e battute di caccia.

Tuttavia i napoletani resistevano!
Questa inattesa resistenza scompaginava il facile finale immaginato da Cavour, cioè la presa della fortezza da parte dei bersaglieri che irrompevano nella fortezza con la fanfara in testa. La cosa lo preoccupava non poco. Il fronte diplomatico era magmatico e gli altri Stati europei potevano sempre cambiare idea di fronte a questa resistenza e alla mancata ribellione dei napoletani contro il sovrano borbonico. I plebisciti non impressionavano nessuno, si sapeva che erano artefatti.
I tre mesi d’assedio impressionarono l’opinione pubblica europea per i comportamenti eroici e valorosi dei soldati , del re e della regina Maria Sofia. Ma quello che non riuscirono ad avere le armi, il Piemonte l’ottenne da un’epidemia di tifo scoppiata nella fortezza. Allora dopo tre mesi di lotta, il re dovette capitolare.

La resa
La resa fu firmata il 13 febbraio 1861, il giorno dopo, il 14 febbraio, Francesco II con accanto la regina Sofia riunì nello spazio antistante la fortezza i resti del suo esercito per prendere congedo. Calmo e rassegnato aveva preso atto del suo destino. Ancora una volta non gli era stato concesso la fortuna di morire sul campo nonostante si fosse esposto coscientemente sugli spalti dove più forte era il pericolo.
Dopo un breve discorso si recò al porto per imbarcarsi su una nave messa a disposizione dalla Francia


Mentre lasciavano Gaeta ed il Regno con la nave francese Mouette, furono sparati 21 colpi di cannone a salve e quando la nave fu lontana sull’orizzonte, sulla torre d’Orlando fu ammainato il tricolore con lo stemma borbonico e issato quello con lo stemma sabaudo.

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