Il 24 maggio l’esercito marciava per raggiungere la frontiera: una guerra che sconvolse il mondo

Il Piave mormorava
Calmo e placido al passaggio
Dei primi fanti il 24 Maggio:
L’esercito marciava
Per raggiungere la frontiera
Per far contro il nemico una barriera!

Così recitava la celebre canzone del napoletano di E A Mario, LA LEGGENDA DEL PIAVE.
Quel giorno l’Italia entrava nella più spaventosa guerra mai combattuta. La prima guerra mondiale fu un conflitto chiamato così perché per la prima volta coinvolse quasi tutti gli Stati allora esistenti che tra il 28 luglio 1914 e l’11 novembre 1918. Man a mano che procedeva, la guerra coinvolse nazioni, come Bulgaria, Persia, Romania, Portogallo, Brasile, Cina, Giappone, Siam e Grecia; determinante fu l’ingresso nel 1917 degli Stati Uniti d’America a fianco degli Alleati. L’Italia, pur restando neutrale, era in cerca dei migliori vantaggi territoriali in cambio del proprio intervento: l’8 aprile 1915 offrì di entrare in guerra a fianco degli alleati delle potenze centrali, Austria e Germania se le fossero stati ceduti Trentino, isole della Dalmazia, Gorizia, Gradisca e riconosciuto il “primato” sull’Albania, ricevendo un rifiuto dall’Austria .L’Italia allora avanzò richieste ancora più gravose alle potenze dell’Intesa, che accettarono. Così il 23 maggio fu dichiarata guerra all’Austria-Ungheria e il 24 l’esercito si mise in marcia.

La guerra si concluse definitivamente l’11 novembre 1918 quando la Germania, ultimo degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l’armistizio imposto dagli Alleati. Alcuni dei maggiori imperi esistenti al mondo – tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo – scomparvero, generando diversi stati nazionali che ridisegnarono completamente la geografia politica dell’Europa mentre la nuova potenza egemone fu quella degli Stati Uniti d’America. La guerra costò al popolo italiano circa 650.000 caduti e un milione di feriti. Il mancato rispetto del patto di Londra sui territori e la crisi economico sociale favorì l’avvento del fascismo.
Si pensava ad una facile avventura militare per conquistarsi il solito posto al tavolo dei vincitori, secondo una politica inaugurata da Cavour con la Guerra in Crimea. Invece venne subito a galla l’inadeguatezza dei mezzi e l’impreparazione della classe politica e di quella militare che causarono un elevatissimo numero di vittime e di feriti, che cambiò il corso della politica mondiale e favorì le avventure totalitarie. Milioni di contadini, di operai ed artigiani furono strappati dalle loro case e mandati a combattere e a morire per motivi che neppure conoscevano, soggetti ad una spietata disciplina militare e imputati di essere rei e codardi per ogni attacco fallito e puniti con la decimazione che consisteva nella fucilazione di un soldato estratto a sorte su ogni dieci! Molti venivano dal Sud, capivano solo i loro dialetti e gli ordini degli ufficiali dovevano essere tradotti. Nelle trincee ebbero modo per la prima volta dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia , di conoscersi: i siciliani con i romani, i napoletani con i veneti, i sardi con i toscani ecc… affratellandosi subito.

Il 24 maggio segnava l’inizio di una guerra che si sperava rapida ma che invece durò quattro anni. Basta riguardarsi il film con Gian Maria Volontè, “Uomini contro” per rendersi conto del clima esistente fra le trincee alpine.

Per sollevare il morale dei soldati e di tutta l’Italia provvida fu la canzone di E A Mario, che per un periodo dopo l’8 settembre del 1943 fu scelta come Inno nazionale.
E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta (Napoli, 5 maggio 1884 – Napoli, 24 giugno 1961), di famiglia poverissima, a 10 anni apprese a suonare bene il mandolino e imparò a leggere la musica da solo. Si impiegò nelle Regie Poste Italiane a Napoli, incarico che mantenne per tutta la vita. Ogni tanto veniva sospeso per scarso rendimento, ma in realtà era una star delle poste napoletane. La sua passione erano le canzoni di cui scriveva parole e musica. E’ autore fra l’altro di Tammurriata Nera e di Santa Lucia luntana, oltre la celeberrima Leggenda del Piave.

Della ricorrenza del 24 maggio non se ne è ricordato nessuno, oppure mi è sfuggito, e dei giornaloni solo Repubblica del 24/5/2021 se ne è ricordata, sia pure in ultima pagina nella rubrica “ Accadde Oggi” , ma come seconda notizia, perché la prima era riservata al ricordo di una sfida enologica!
E’ vero che il mondo è distratto da altre cose, come l’epidemia da Covid e specialmente dalla tragedia della funivia dovuta a quanto pare alla conoscenza del difetto esistente coniugata con la volontà di non chiudere l’impianto per non privarsi del guadagno di una giornata festiva, in funesto omaggio al verso di Seneca “Quod non mortalia pectora coges, auri sacra fames, che significa “a cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell’oro“.
Ma anche durante la prima guerra mondiale imperversava una forse ben più tremenda epidemia, la cosiddetta “spagnola” che alcuni dicono, causò più vittime dei caduti in guerra.

L’alibi della burocrazia borbonica che blocca tutto anche il PNRR

Sul PNRR, quel coso là, quel piano nazionale che dovrebbe salvare l’Italia post Covid, pesa come una spada di Damocle la capacità della Pubblica Amministrazione di operare presto e bene. Ne prende atto lo stesso PNRR nel quale c’è scritto papale papale ( pag 44) che “esistono norme estremamente articolate e complesse stratificate nel tempo in maniera poco coordinata e spesso conflittuale”. Quindi la realizzazione del piano potrebbe essere ostacolato o vanificato da una burocrazia infingarda e pre – moderna e dall’esistenza di norme che configgono fra loro.

Cos’è la burocrazia e perché non è borbonica
Per burocrazia, letteralmente “il potere degli uffici”, si intende l’obbligo della Pubblica Amministrazione della realizzazione dei fini pubblici individuati dalle istituzione con provvedimenti normativi ( leggi, decreti ecc) o regolatori (regolamenti, circolari, ordinanze ecc).
Spesso tutto questo è condito dall’aggettivo “borbonico”, perchè una burocrazia inefficace ed inefficiente non può che essere borbonica. Ciò si verifica principalmente quando la politica è debole oppure è debole ed incompetente. Allora in questo caso si affida ai demiurghi che in genere sono burocrati di grande e grosso spessore che poi si troveranno a scontrare con la burocrazia da cui provengono ma soprattutto si trovano invischiati da una rete di norme che ne impediscono perfino un ordinario funzionamento. Leggi che finchè vigono non possono essere ignorate dai soggetti delle pubbliche amministrazioni, i quali firmano un atto solo se tutto è perfetto ed in regola con tutte le formalità previste e prescritte. Il funzionario che oggi prendesse una decisione magari di buon senso incorrerebbe in una serie di reati a partire dall’abusato abuso d’ufficio la cui segnalazione magari proviene dal collega con il quale va a prendere il caffè, usando la delazione anonima, chiamata ora più romanticamente in inglese, Whistleblowing come è d’uopo anche se il Regno Unito è sortito dalla Comunità Europea.
Ma nell’attribuire l’inefficienza alla burocrazia perché di matrice borbonica, si commette un errore di utilizzo di un solito luogo comune senza aver fatto alcuna verifica, anche superficiale. La burocrazia borbonica, formata da valenti uomini professionalmente eccellenti, era, nel contesto in cui c’erano i Borbone, molto efficiente e l’aver avuto per circa un decennio dei re francesi, Giuseppe Bonaparte e Giacchino Murat, le cose migliorarono ulteriormente per l’adozione del modello francese. L’istallazione del telegrafo in tutte le province inoltre permise la comunicazione celere ed univoca di disposizioni dal centro alla periferia e di richieste dalla periferia al centro.
L’impianto della PA italiano sostanzialmente è quello sabaudo piemontese esteso unilateralmente dappertutto nel 1861, data della proclamazione del Regno di Italia. Essa si fonda sul formalismo giuridico. Non a caso qualcuno suggerì di non assumere più laureati in legge nei ministeri, ma solo esperti informatici e di organizzazione aziendale.



Un esempio per tutti.
Sono circa vent’anni che è stato deciso il raddoppio della linea ferroviaria sul versante adriatico, ma non si riesce a farla per motivi vari, fra cui la tutela di una specie di passero che nidifica nei pressi di Falconara marittima, oppure l’istituzione dei treni ad alta velocità da Salerno in giù, verso Lecce da una parte e verso Trapani dall’altra. Se ne parla anche qui da un ventennio e si ripropone con il PNRR.
Un esempio dell’efficacia dei Borbone. Prendiamo la costruzione del primo treno italiano: sulla tratta Portici – Napoli di cui si servì Garibaldi per fare il suo ingresso trionfale a Porta Nolana..
L’idea della ferrovia era partita nel 1836, i lavori cominciarono l’8 agosto del 38 ed il 4 ottobre dell’anno successivo, nel 1839 fu inaugurato il primo tratto da Portici-Granatello fino a Napoli¬ – Porta Nolana. In soli tre anni la ferrovia, una cosa mai fatta in Italia fu ideata e realizzata e tenendo conto dei mezzi tecnici e della mentalità di allora, fu un tempo assolutamente brevissimo. Qualche anno dopo la linea fu prolungata fino a Nocera ed a Salerno; nel 1840 fu aperta al traffico la Napoli-Caserta e si progettò la realizzazione di una rete per collegare con strade ferrate tutte le regioni meridionali. Progetto che non potè essere realizzato per avvenuto decesso del regno.
La PA ha bisogno di regole per evitare soprusi ed arbitri

La necessità che la Pubblica Amministrazione abbia regole certe fu individuata già a Max Weber nel 1920 in Economia e società’ – pubblicato postumo. La “burocrazia” è un unico “modo” razionale di gestire qualunque tipo di “potere”, e non devono travalicare il confine dei propri compiti – che e’ quello di dare attuazione professionale agli ordini dei propri vertici. Weber individua una patologia grave proprio nel pericolo che il potere amministrativo si sostituisca al potere del Parlamento, sfruttando la sua superiore preparazione e continuità professionale rispetto ai vertici politici. Weber descrive il rapporto ottimale fra politici e funzionari, pensando al modello inglese. La pubblicità dell’amministrazione, ottenuta attraverso un effettivo controllo del Parlamento, e’ ciò che si deve richiedere come condizione preliminare ( crf EticaPA ).
Poi c’è il problema degli atti normativi

Soppressione di “leggi inutili”
Nel febbraio 2009 l’allora ministro della semplificazione, dicastero creato ad hoc per risolvere il problema, Roberto Calderoli, annunciò di aver soppresso 29000 leggi inutili, il cui mantenimento costava 2.000 euro all’anno, per un risparmio totale che sarebbe ammontato, affermò Calderoli, senza dimostrarlo comunque, a 58.000.000 di euro l’anno. Per un maggior impatto mediatico l’anno dopo, a marzo del 2010 lo stesso si esibì con un rogo acceso in una caserma di pompieri dando simbolicamente fuoco a 375.000 leggi abrogate in 22 mesi di legislatura, raccolte in circa 150 scatole contenenti i soli titoli. Le norme più vecchie risalivano al 1861 cioè alla nascita del Regno d’Italia; secondo il governo di allora, tale operazione di taglio delle leggi avrebbe permesso di risparmiare 787 milioni di euro l’anno. Le leggi rimaste, sarebbero dovute essere riorganizzate a loro volta in testi unici suddivisi per settore. I testi unici non sono mai stati scritti e la situazione dal 2010 in poi non è per niente migliorata.
Allora con Dpcm 12 giugno 2013 ( oggi sappiamo tutti cos’è un Dpcm) venne istituito un Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione. il decreto si prevede che il Comitato entro il 31 marzo di ogni anno:

  • predisponga un piano di azione per il perseguimento degli obiettivi del Governo in tema di semplificazione, di riassetto e di qualità della regolazione per l’anno successivo,

– sentito il Consiglio di Stato, venga approvato dal Consiglio dei Ministri e trasmesso alle Camere;

  • verifichi, durante l’anno, lo stato di realizzazione degli obiettivi, che viene reso pubblico ogni sei mesi;
  • svolga funzioni di indirizzo, di coordinamento e, ove necessario, di impulso delle amministrazioni dello Stato nelle politiche della semplificazione, del riassetto e della qualità della regolazione. Una classica grida manzoniana.
  • Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio, che può delegare le relative funzioni al Ministro per le riforme e l’innovazione nella pubblica amministrazione;
  • è composto, oltre che da quest’ultimo, dai Ministri per gli affari regionali e le autonomie locali, per le politiche europee, per l’attuazione del programma di Governo, dell’interno, dell’economia e delle finanze, dello sviluppo economico, nonché dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Segretario del Consiglio dei ministri.
  • Ogni componente del Comitato può delegare la propria partecipazione ad un Vice Ministro o ad un Sottosegretario.

Al fine di favorire il raccordo con il sistema delle autonomie, il Tavolo è istituito presso la Conferenza unificata. E’ composto dai rappresentanti delle categorie produttive e delle associazioni di utenti e consumatori, nonché da rappresentanti dei Ministeri, della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, dell’ANCI, dell’UPI e dell’UNCEM. Il Tavolo, previsto dall’articolo 5 del DPCM istitutivo del Comitato interministeriale, è stato istituito con un ulteriore DPCM in data 8 marzo 2007.

Supporto tecnico al Comitato
È assicurato dall’Unità per la semplificazione

L’Unità per la semplificazione è presieduta dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – Segretario del Consiglio dei ministri, che può delegare le relative funzioni al Segretario generale della Presidenza del Consiglio – Vice Presidente dell’Unità in coabitazione con il Capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. Cioè una cosa più complicata per proporre la semplificazione non la potevano inventare.
Infatti cosa abbia prodotto dal 2013 ad oggi non è dato sapere. Ci riproviamo con il PNRR!

Cambiare il nome ad una strada può essere pericoloso, ma non sempre per motivi politici.

Supr Maria Laura Mainetti

Il Comune di Chiavenna, un comune abbastanza piccolo con circa 7000 abitanti, in provincia di Sondrio, Lombardia, come ha riportato bellamente un giornalone a tiratura nazionale, avrebbe deciso di cambiare nome ad una strada. Gli abitanti della strada in questione, vivamente allarmati, hanno scritto una loro petizione per scongiurare l’avvenimento. Non perché ce l’abbiano con la persona che il Comune vorrebbe ricordare ed omaggiare, ma per tutt’altri e più banali motivi. ll Comune vuole intitolare una strada a suor Maria Laura Mainetti, una religiosa e educatrice italiana della Congregazione delle Figlie della Croce, Suore di Sant’Andrea, nata a Colico, 20 agosto 1939 e morta a Chiavenna il 6 giugno 2000, assassinata da tre ragazze durante un rito satanico. Lo scorso anno si è appena chiuso il processo di beatificazione processo di beatificazione si è aperto nel 2008 e chiuso nel 2020 e la proclamazione è prevista per il 6 giugno 2021.
Gli interessati temono, pur abitando in un luogo dove si conoscono probabilmente tutti, le disavventure kafkiane che potrebbero incorrere in questo semplice cambio di domicilio o residenza e propongono, in alternativa, di intitolare alla prossima Beata un giardino pubblico. Nel suo pezzo un noto articolista de il Corriere, perché di questo “giornalone” si tratta, gli altri sono la Stampa e La Repubblica, ricorda come la petizione per cambiare nome al “Corso Unione Sovietica” a Torino, raccolse tre sole firme (nessuna di Torino), nonostante vi abitassero e vi abitino tuttora centinaia di anticomunisti, rassegnati a tenersi Stalin sui documenti pur di non perdere l’anima tra le scartoffie.
Quindi questo è uno dei motivi per cui si va con i piedi di piombo quando si tratta di cambiare nome anche ad un viottolo qualsiasi.

Le strade ed i numeri civici
Ma come nascono gli indirizzi ed in particolar modo i numeri civici, la cui assenza, prima dell’invenzione delle e-mail, faceva impazzire i postini?
In un piccolo borgo, un villaggio di campagna o una frazione di una città, trovare una persona era relativamente facile. Ci si orientava prendendo qualcosa a riferimento, una chiesa, un monumento, un palazzo nobiliare, un’osteria eccetera. Le strade in genere non portavano nessun nome né numerazione se non quello abusivamente affibbiato dagli abitanti. Poi si chiedeva casa per casa e generalmente l’impresa aveva esito positivo.
Diversa era la questione se si doveva trovare una persona in un agglomerato urbano un po’ più vasto. Allora si cercarono dei sistemi meno approssimativi per risalire alle abitazioni dei cittadini. La cosa aveva una particolare importanza per i rappresentanti del potere anche al fine di controllare la popolazione.
Così a Milano nel 1786 il ministro austriaco Wilczeck, per disposizione di Giuseppe II, imperatore d’Austria, incaricò il marchese Ferdinando Cusani Visconti, allora ‘giudice delle strade’ milanesi, di provvedere all’affissione di una targa, ad ogni angolo di strada, col nome della via e di assegnare a tutte le case, un numero civico univoco. Una particolare curiosità era costituita dalla cosiddetta numerazione “teresiniana” dal nome dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa. La numerazione si basava su un modello circolare progressivo senza fine. Dando il n. 1 al palazzo del governo poi si continuava in cerchi sempre più vasti, con gli edifici attigui fino ad arrivare all’estremo limite periferico della città. In quel periodo Milano aveva circa 5000 edifici perché la numerazione arrivava a quel numero.
A Napoli si provvide 6 anni dopo quando nel 1792 Ferdinando IV di Borbone, emanò un editto per la creazione dei numeri civici e delle targhe con i nomi delle strade.

Astio borbonico antirisorgimentale: Come ti bollo il meridionale che protesta

da Repubblica 29/4/2021

Dopo che molti accreditano a tutti i meridionali un dna borbonico, adesso si scopre che sono anche astiosi antirisorgimentalisti e in sostanza razzisti come alcuni settentrionali. La afferma Francesco Merlo sulle pagine della sua rubrica che cura sul quotidiano La Repubblica edita dalla casa editrice Gedi della Fiat (una specie di “La Stampa” più illuminata) in una risposta ad un lettore il 29/04/2021.

Francesco Merlo per quei pochi che non lo conoscessero è un giornalista dalla prosa fluente ed affascinante, anche se appartiene alla categoria di chi si sente elitario ed illuminato e discetta con sarcasmo moraleggiante. Comunque si legge sempre con piacere ma non sempre ci azzecca. Anche lui non rifugge dall’uso di un linguaggio stereotipato di facile effetto basato sulla ripetizione di vecchi cliché. Cosa verificabile nella risposta di un lettore che paventava il cattivo uso delle somme recentemente stanziate nel cosiddetto PNRR per colpa alcuni attuali uomini politici (cosa possibilissima e tendenzialmente vicino alla realtà),ma non uomini politici in generale, ma quelli meridionali, citandone per nome alcuni. In effetti quelli tirati in ballo un po’ da pensare lo danno, in quanto ampiamente discutibili ma che comunque occupano posti istituzionali non a seguito di usurpazione ma di libere e finora democratiche elezioni.
La risposta di Merlo è da manuale

Lettera: Caro Merlo, il piano di Draghi prevede che il 4O per cento delle risorse vadano al sud. Ma una foIla di sindaci, con intesta MastelIa e De Magistris dicono che il Sud è stato “ fottuto”…. E qui comincia l’aritmetica taroccata: “ dei piazzisti: Non ve lo do per cento, non ve lo do per mille: Se Draghi sommando arriva a 82 miliardi, Mastella sottraendo, arriva a 22 e dice “ne mancano 60”. E De Luca accusa Draghi di furbizia… Da meridionale a meridionale: “ a schifio finisce?”
Risposta: 82 miliardi: alta velocità, porti, scuole, ospedali, banda digitale ultraveloce, protezione del mare e sul Ponte sullo Stretto c’è una relazione e sarà inviata al Parlamento”. Da meridionale a meridionale: è un’occasione unica, ma con un nemico peggiore dell mafia: il rancore plebeo sul quale continuano a lucrare questi masanielli, la vecchia sottocultura dell’astio borbonico e antirisorgimentale, un delirio opposto ma solidale al razzismo del Nord. Ha ragione: “a schifio finisce”.

Andiamo invece un po’ nel merito della questione: il 14 febbraio 2020 più un anno fa, l’allora ministro per il Sud, Giuseppe Provenzano presentò il piano di rinascita per il Sud con relative e allora immancabili slide chiamato Piano Sud 2030. In quell’occasione l’ex ministro ebbe a scrivere:
“Manca il lavoro buono, certo. E servizi di qualità: scuola, salute, mobilità. Ed i giovani se ne vanno. Ma la prima causa della fuga, o della fatica di quelli che restano, è l’incertezza e la sfiducia sulle prospettive di futuro del Sud, da qui a dieci, vent’anni.
L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà. La sfida del Sud è la più difficile di tutta la nostra storia unitaria.
La politica ha il compito di creare e diffondere condizioni di benessere, accelerare e supportare i processi virtuosi. La premessa è dare risposte alle emergenze e ai bisogni, dove necessario riconquistare territori e cittadini alla legalità.
Nel suo discorso programmatico d’insediamento lo scorso febbraio Draghi ha detto le cose ovvie che immaginavamo con misurata ma immancabile retorica.
In merito al Mezzogiorno anche qui un trionfo dell’ovvio senza nessun riferimento al Piano Sud 2030.

La quota Sud nelle 6 missioni
Scomparso il Piano sud dal proscenio, è stato varato con squilli di tromba e rullare dei tamburi il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza . Resilienza è un termine originariamente utilizzato in psicologia e sta a significare  la capacità di far fronte in maniera positiva a qualcosa e nella fattispecie penso alla pandemia.
Questa resilienza e ripresa prevede per il Sud in totale 82 miliardi di euro, pari al 40% del totale delle risorse del piano stesso. Nello specifico per la missione “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura” sono previsti 14,58 miliardi (pari al 36,1% dell’intera dotazione della missione), per “Rivoluzione verde e transizione ecologica” 23 miliardi (il 34,3%), per “Infrastrutture per la mobilità sostenibile” 14,53 miliardi (53,2%), per “Istruzione e ricerca” 14,63 miliardi (45,7%), “Inclusione e Coesione” 8,81 miliardi (39,4%) e per “Salute” 6 miliardi (35-37%).
Non si sa se queste cifre si aggiungono o assorbono quelle già previste per il piano Sud, perché se non si aggiungono le esternazioni di alcuni sindaci sovente più noti per il loro folclore lessicale che per interventi amministrativi incisivi in qualsiasi direzione, francamente non mi sembrano cosi immotivate e per dimostrare che non si è astiosi di matrice borbonica e solidali del razzismo del nord, si tralascerà di sottolineare che la maggior parte dei ministri dell’attuale compagine sono settentrionali. Come i padri della Patria d’altronde,( in ordine alfabetico ) Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II, tutti settentrionali.

Verified by MonsterInsights